Atipica caccia all’uomo in cui l’uomo, sulla carta, un volto sembra averlo. Il problema potrebbe essere inchiodarlo.

Si apre con un incipit che mette subito fuori pista l’ultimo film di John Lee Hancock appena approdato in streaming: una sorta di ouverture che, pur con tutte le differenze del caso, sulle prime fa tornare in mente Zodiac di Fincher. Un killer in automobile che fa il gioco del gatto col topo, sembra ripensarci, torna sui suoi passi. O meglio sulla stessa strada.

Eppure, i primi minuti di The Little Things (reso da noi col meno evocativo Fino all’ultimo indizio) si rivelano presto meno essenziali di quanto previsto. Forse fuorvianti.

Fino all'ultimo indizio

Del resto, questa sorta di detective story sdoppiata e vissuta da due protagonisti è stata più volte paragonata in patria a un altro film di David Fincher, Seven, per una serie di motivi fra cui forse vale la pena ricordarne solo un paio: l’affinità col binomio dei personaggi principali – il detective afroamericano abile e preparato e quello più giovane, rampante e vagamente vanesio – e una struttura simile a quelle che grande successo conobbero al cinema negli anni Novanta.

Il copione di The Little Things, infatti, è rimasto nel cassetto di John Lee Hancock per quasi trent’anni prima che decidesse di dirigerlo da solo, dopo aver inanellato una serie di “No grazie”. E il suo regista ha scelto di girarlo aggiornandone solo in parte i codici narrativi, ma non quelli visivi.

Nella Los Angeles dei nineties in cui si usano ancora i telefoni a gettoni o quelli al banco dei locali l’ex-investigatore Joe Deacon (Denzel Washington), che ha optato per una più modesta vita da poliziotto di provincia, torna per un incarico di routine, ritrova i vecchi colleghi e conosce il suo ambizioso e giovane successore Jim Baxter (Rami Malek). La polizia è alle prese con un caso di omicidio che a Joe ricorda l’operato di un serial killer che provò senza successo a inchiodare anni prima. E quando Jim cerca un’alleanza per un’indagine a quattro mani, il più anziano si trova irretito nella spirale di ossessione di un caso che gli ha probabilmente lasciato qualche cicatrice. Così il convergere dei sospetti su un operaio inquietante (Jared Leto) dal passato poco limpido, che sembra divertirsi a farsi tallonare, diventa detonatore di un’investigazione presa troppo sul personale.

A sorprendere, e a rendere più arduo l’appassionarsi a una storia che pur avrebbe tutti gli elementi per ipnotizzare, è l’inusuale approccio del suo regista. Fino all’ultimo indizio tesse la tela della sua trama con inattesa lentezza e, soprattutto, senza far emergere un quadro nitido dall’intrecciarsi dei fatti. Hancock filma sì dilatando i tempi (Hitchcock docet, ma è fuori dai radar), ma anche inserendo i tasselli del mosaico in un ordine che non sembra aiutare la comprensione.

Qual è il vero legame tra gli omicidi del passato e quelli del presente? Il killer mostrato in apertura c’entra qualcosa? I piani temporali si mescolano – forse volutamente – a danno della chiarezza. Almeno in partenza.

Poi, quando il film decolla, il marchingegno della ricerca di un colpevole inizia a frenare e lascia un presentimento anomalo: quello che il regista non ci porterà dove ci ha fatto credere.

Perché in qualche modo, preparando l’epilogo, Fino all’ultimo indizio cambia prospettiva: il dubbio investigativo si trasforma in morale, svelare il mistero diventa meno importante e cede il passo a una riflessione più etica. Ecco perché la pellicola riesce ad affascinare solo nel suo sfuggire alle attese, nel suo far aspettare tanto per concedere qualcosa che il genere (oggi forse più frequentato dalle serie che dal cinema) non ci ha abituato ad attendere. È abbastanza?

Nonostante i dubbi, il triangolare delle tre star da Oscar (quattro statuette in tre) funziona. Washington è prevedibilmente bravo, Malek pur criticato riesce a rendere una limitata paletta espressiva la chiave per interpretare un personaggio troppo innamorato della propria bravura, e Leto – candidato al Golden Globe e allo Screen Actors Guild Award come miglior attore non protagonista – strafà che è una meraviglia.

Anche sulle loro tre prove grava la solennità, a tratti eccessiva, di un regista chiaramente infatuato del suo script. Ma che illumina la pellicola con la fotografia da applauso di John Schwartzman (nominato all’Oscar per Seabiscuit), abilissimo nel declinare le tonalità delle luci notturne e del verde, da quello dei boschi a quello dell’auto del sospettato fino a quello acido delle insegne.



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